Gli attacchi di panico si caratterizzano come episodi di intensa paura o disagio. Insorgono generalmente in modo improvviso, spesso senza una motivazione apparente, con una sintomatologia drammatica che raggiunge il picco di sintomi in pochi minuti ( cinque- dieci minuti ) e decrescono poi più lentamente (in una mezz’ora circa).
Così descritti sembrerebbero avere un impatto relativo, eppure chiunque li abbia sperimentati li racconta come un’esperienza terribile e in grado di compromettere il buon funzionamento della quotidianità, specie se si instaura un “disturbo di panico”.

Ne parliamo con la Dott.ssa Giuriato Giulia, Psicoterapeuta esperta in Neuropsicologia ed in Declino Cognitivo.

Come si riconosce un attacco di panico?

I sintomi riscontrabili durante un attacco di panico sono di diversa natura e spesso ne possiamo ritrovare presenti più contemporaneamente (4 o più). Essi sono:

  • Palpitazioni o tachicardia
  • Sudorazione
  • Tremore o agitazione
  • Sensazioni mancanza di respiro e soffocamento
  • Dolore o fastidio al petto
  • Nausea o disturbi addominali
  • Sensazione di vertigini, instabilità, stordimento o svenimento
  • Brividi o vampate di calore
  • Parestesie (sensazioni di intorpidimento o formicolio).
  • Derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi).
  • Paura di perdere il controllo o di “impazzire”.
  • Paura di morire
Generalmente, quando l’attacco si verifica, la persona cerca di allontanarsi dal luogo o dalla situazione in cui si trova nella speranza che, così facendo, il panico cessi oppure cerca una persona di riferimento che la possa aiutare qualora dovesse sentirsi male, svenire o impazzire.
Diversamente c’è anche chi ricerca di proposito la solitudine, guidato dalla vergogna all’idea che le persone attorno a lui si accorgano di quello che sta succedendo o che lo vedano stare male e, peggio ancora, lo percepiscano “debole” o “pazzo”.

Con cosa può essere confuso un attacco di panico?

Proprio perché uno dei sintomi più facilmente riscontrabili durante un attacco di panico è la tachicardia, assieme a sensazioni di fastidio o costrizione al petto, la maggior parte delle persone teme che sia in atto un vero e proprio problema cardiaco.
Infatti la grande parte dei pazienti che giungono a consultazione psicologica hanno già avuto almeno un accesso al pronto soccorso con diagnostica negativa a sintomatologia cardiaca e suggerimento da parte del personale curante di approfondire la natura psicologica del problema.

Come si inizia ad avere “paura della paura”?

Trattandosi di una esperienza estremamente spiacevole la cui insorgenza viene vissuta come improvvisa e imprevedibile, frequentemente la persona inizia a sperimentare la paura che l’attacco di panico possa ripresentarsi e coglierla impreparata a fronteggiarlo.
Viene così ad instaurarsi un vero e proprio circolo vizioso in cui il soggetto sperimenta “ansia anticipatoria” al possibile verificarsi di un altro attacco, andando così ad alimentare tutta una serie di interpretazioni catastrofiche negative dei propri segnali corporei. La “paura della paura” porta ad interpretare le sensazioni vissute non come derivati dalla condizione di stress che la persona sta vivendo, l’esito di qualcosa che ci spaventa o ci preoccupa, ma come segnali incontrovertibili di un attacco imminente. È come, quindi, se la soglia di attenzione ai nostri segnali corporei si abbassasse e percepissimo tutto in maniera amplificata, dando a questi segnali una interpretazione negativa e preoccupante.
La persona quindi inizia a mettere in atto una serie di evitamenti di situazioni/luoghi/persone che si ritiene possano più facilmente essere d’innesco di un attacco di panico (viaggiare in autostrada, andare al supermercato, incontrare amici in posti affollati, fare attività fisica etc..). Oltre a ciò spesso si iniziano a mettere in atto anche tutta una serie di comportamenti che la persona crede istintivamente possano prevenire l’insorgenza di un possibile attacco (viaggiare con una persona specifica, portare con sé i farmaci, sedere agli estremi di una stanza o andare in posti dove si possa sempre avere sott’occhio l’uscita etc..).
Tutti questi comportamenti descritti finora, tuttavia, non fanno altro che mantenere la problematica in essere e non ci aiutano a rompere quel “circolo vizioso” innescato.

Come liberarsi dalla trappola?

Tra i trattamenti indicati come più efficaci dalle linee guida internazionali (NICE – 2011) ritroviamo la Terapia Cognitivo Comportamentale. Secondo questo specifico approccio psicoterapeutico ciò che maggiormente causa l’instaurarsi del problema non è tanto ciò che sentiamo ma, piuttosto, l’interpretazione che ne diamo secondo “schemi di lettura della realtà” distorti o eccessivamente allarmistici. È, in un certo senso, come se avessimo impostato il nostro allarme domestico come pronto a scattare anche per il minimo granello di polvere in movimento.
Ciò che ci si propone di fare in terapia infatti è una vera e propria “rilettura” delle nostre sensazioni nei diversi contesti e dei pensieri che ad esse associamo, andando a trovare delle interpretazioni della realtà alternative che possano essere meno catastrofiche e più funzionali al nostro vivere quotidiano. In questo senso si mira anche ad una maggiore tolleranza dell’ansia, in quanto emozione che naturalmente ci porta a prepararci ad un compito o ad una prestazione senza essere in ogni contesto soverchiante e bloccante.
Con l’aiuto del terapeuta ci si abituerà quindi all’utilizzo di interpretazioni, e quindi pensieri, più aderenti alla realtà e più utili al raggiungimento dei nostri scopi, andando ad eliminare tutti i comportamenti protettivi o di evitamento che mantengono il problema e ci danno la sensazione di “essere in trappola”.